Teatro Comunale Pavarotti-Freni
Alla serata inaugurale del nuovo Teatro comunale, il 2 ottobre 1841, l’architetto Francesco Vandelli e il pittore Adeodato Malatesta, autore del sipario, furono chiamati a salire sul palcoscenico raccogliendo i primi applausi di un pubblico composto dalla famiglia di Francesco IV al completo, dai dignitari della corte austro-estense, dalle autorità militari e politiche e dai più autorevoli rappresentanti della Comunità.
Nato a Modena nel 1806, Malatesta si era formato presso la locale Accademia Atestina, che aveva frequentato fino al 1826. Distintosi ben presto per le sue promettenti doti artistiche, per volere dello stesso Francesco IV, era stato inviato a proseguire gli studi prima a Firenze e in seguito a Roma e a Venezia. Nella capitale pontificia si era stabilito con la famiglia nel 1837, inserendosi ben presto nel fervido clima culturale romano. A contatto con l’ambiente dei Nazzareni e del Purismo, il giovane pittore modenese sembrava ormai avviato a una promettente carriera.
Nel 1839 però, in seguito alla malattia e poi alla morte di Giuseppe Pisani, fu nominato inizialmente vice-direttore e quindi, con chirografo ducale del 29 dicembre 1839, direttore dell’Accademia modenese. Accettando l’incarico che gli veniva offerto, Malatesta abbandonava le incertezze di un promettente futuro per la sicurezza di un prestigioso incarico in provincia. In quegli stessi anni aveva inizio anche il suo difficile e per molti aspetti contraddittorio rapporto con la pittura di storia, genere privilegiato dalle gerarchie accademiche e prediletto dalla sensibilità contemporanea. Poche sono infatti le opere realizzate e giunte fino a noi, in confronto a quelle commissionate e non eseguite o non terminate. Significativo, in proposito, è il caso della Disfatta di Ezzelino da Romano, grandioso dipinto al quale il pittore stava già lavorando nel 1840.
Al termine di un lungo periodo di gestazione, la versione definitiva dell’opera fu esposta a Brera nel 1856, divenendo oggetto di un vero e proprio culto nel panorama della pittura storica dell’ Ottocento italiano, anche perchè il tema si prestava a una duplice lettura, come celebrazione delle origini del ducato estense oppure, in chiave risorgimentale, come esempio di liberazione dalla tirannide. Alla Disfatta di Ezzelino comunque è rimasta legata, nel bene e nel male, la stessa fama del pittore.
Dopo l’esordio con il Filottete del 1827, ispirato a un tema omerico, la prima occasione per cimentarsi con un soggetto di storia moderna gli fu offerta nel 1831, dalla commissione ducale di un dipinto raffigurante Carlo V in visita allo studio del Correggio.
Alla realizzazione dell’opera Malatesta rinunciò definitivamente nel 1840, quando stava già lavorando a un altro dipinto di committenza ducale, questa volta portato a termine con successo, La vestizione di Alfonso III d’Este. Iniziata a Roma e realizzata fra il 1838 e il 1841, quest’ultima rispondeva meglio della precedente, che celebrava l’artista più del sovrano, all’ideologia legata alla Restaurazione cattolica di Francesco IV. La scelta della Comunità per una commissione prestigiosa come il sipario del teatro comunale si indirizzò naturalmente verso il nuovo direttore dell’Accademia, figura autorevole e in grado di conciliare la fiducia del duca con una personale simpatia per gli ambienti liberali, il solo artista modenese del momento che avesse conseguito una notorietà non solo locale. Ottimi dovevano essere tra l’altro i rapporti di Malatesta con il marchese Giuseppe Carandini, il conservatore comunale responsabile del cantiere del teatro, che nel 1840 gli commissionò il ritratto della moglie, Vittoria Trivulzio, con il figlio Gian Giacomo (già Modena, Palazzo Carandini), uno dei più bei ritratti dipinti dal Malatesta di ritorno da Roma, tutto permeato dai ricordi di Ingres e del Purismo.
Quanto al soggetto da raffigurare, al pittore non piacque il tema inizialmente proposto dal letterato Giovanni Galvani, Il Parnaso modenese, che prevedeva una concettosa commistione del classico soggetto tratto dalla mitologia greca con il tema romantico dell’esaltazione delle “glorie patrie”.
In linea con le più aggiornate tendenze dello storicismo romantico, Malatesta scelse invece un soggetto tratto dalle Antichità Estensi di Ludovico Antonio Muratori, Ercole I in visita al teatro da lui fatto costruire a Ferrara nel 1486 per la rappresentazione dei Menecmi di Plauto. In questo modo l’artista voleva sottolineare l’importanza della prima recita in volgare della commedia di Plauto per lo sviluppo del teatro rinascimentale, ma operava nello stesso tempo una scelta tematica celebrativa del mecenatismo estense in campo artistico, alludendo – come osservava Antonio Peretti in un opuscolo del 1841 sul teatro – “alla protezione accordata agli onesti spettacoli dall’Altezza del Duca regnante”.
Nella vasta piazza del castello estense, dominata dal monumento equestre di Borso, è orchestrata una grande scena corale, con Ercole I a cavallo che incede al centro della composizione. Intorno alla figura del giovane sovrano si raccoglie un gruppo di cortigiani, letterati e artisti, fra i quali spiccano l’architetto che gli presenta il progetto del teatro in costruzione, visibile a sinistra sullo sfondo, e il poeta che stringe tra le mani una pergamena con la traduzione dei Menecmi. Alcune notazioni episodiche collocate in primo piano ai lati della scena, servono a bilanciare la composizione e a convogliare l’attenzione verso il fulcro della rappresentazione.
Tra le figure, tutte caratterizzate da nitidi tratti individuali, spicca quella dell’armigero a cavallo che avanza intimando ad alcuni popolani di spostarsi, episodio nel quale si è voluta leggere una velata allusione da parte dell’artista alla prepotenza delle milizie ducali del suo tempo. Al momento della sua presentazione il sipario dipinto da Adeodato Malatesta, raro esempio di quella pittura di storia che aveva reso celebre Hayez nel più vivace contesto culturale milanese, riportò un notevole successo di critica, e non soltanto a livello locale. Ne parlarono con ammirazione fogli come la “Gazzetta privilegiata” di Milano, il “Mondo illustrato” di Torino e il “Tiberino” di Roma, equiparandolo a un “magico quadro ad olio”; anche il pittore Domenico Morelli, passando diversi anni dopo per Modena, si sarebbe stupito di fronte all’opera per la sua modernità. I numerosi sipari dipinti nel corso dell’Ottocento presentano in effetti quasi tutti soggetti di ispirazione classica o mitologica; la scelta tematica del pittore modenese dovette perciò apparire per molti aspetti coraggiosa e innovativa.
Come di consueto però Malatesta non perse di vista i grandi modelli del passato, creando una scena ispirata alle grandiose composizioni di Tiziano e di Paolo Veronese. Alla tradizione veneta egli guardò anche per il colore, così caldo e intenso da far quasi dimenticare che il sipario è in realtà dipinto a tempera, e tuttavia coniugato a un rigore e a una sobrietà formali tipici della produzione malatestiana di quegli anni, fortemente influenzata dalla pittura del Rinascimento.